Paolo Costa
10.10.2010 – La diffusione delle telefonate intercettate tra il vicedirettore del “Giornale”, Nicola Porro, e il Portavoce di Emma Marcegaglia, Rinaldo Arpisella, ha aperto uno squarcio su uno scenario di infinito squallore. Poco importa se i fatti siano di rilevanza penale. Importa che evidenzino una pratica lontanissima dal paradigma del watchdogging associato al giornalismo di inchiesta: quel modello che vuole il reporter agire – al servizio del pubblico – come cane da guardia, con l’obiettivo di sorvegliare il comportamento del potere e smascherarne gli errori e gli abusi. Siamo al dossieraggio, all’uso della notizia come merce di scambio iniquo, dove ha grande valore la notizia non data (anche se potrebbe interessare il lettore), tenuta in sonno in cambio di un prezzo politico pagato dalla vittima del ricatto.
Bene ha fatto la Società Pannunzio per la libertà di informazione a denunciare all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia il direttore responsabile del “Giornale”, Alessandro Sallusti, e lo stesso Porro, chiedendone l’immediata radiazione (si veda qui il comunicato della Società Pannunzio). Il “Giornale” ha poi contibuito a pubblicizzare la notizia, dandole un certo rilievo sull’edizione online di oggi: l’articolo E ora vogliono radiare Sallusti e Porro è a firma di Antonio Signorini. Colpisce, ma purtroppo non stupisce, la veemenza dei commenti dei lettori al pezzo di Signorini, dove si parla di “masnade sinistrorse”, “scalzacani di sinistra”, “mezze calzette scalcagnate”, “maledetti libertari” ecc.
Restano da fare alcune riflessioni, per me decisive.
Primo punto: non è un paese sano quello in cui i vasi di Pandora si scoperchiano solo per via giudiziaria e segnatamente attraverso lo strumento delle intercettazioni telefoniche. Certo, è bene che gli scandali avvengano. Ma sarebbe meglio se avvenissero per crisi interna, non per l’atto di un pubblico ministero. Portare la deontologia fra i giornalisti attraverso le intercettazioni telefoniche è un po’ come portare la democrazia in Iraq con le bombe.
Secondo punto: siamo sicuri che il metodo Boffo rappresenti un’esclusiva di Feltri? O meglio: non viene il sospetto che le incheste su Boffo e Fini rappresentino la parte emersa – e, in quanto tale, meno pericolosa – di un iceberg? A me viene il sospetto che tutte le redazioni dei grandi quotidiani nazionali abbiano i cassetti pieni di dossier. Di questi, i più inquietanti sono quelli che non vedranno mai la luce: dossier che fanno egregiamente il loro lavoro proprio in quanto rimangono al buio di quei cassetti e che smetterebbero di servire nel momento in cui venissero pubblicati. Se così fosse, dovremmo riconoscere una volta per tutte che il modello di riferimento per molti di noi – fondato sulla terzietà del giornalista rispetto alle fonti e all’opinione pubblica – è sempre stato un mito che si è alimentato da sé e che in Italia ha avuto scarso riscontro. Pertanto non vorremmo che a pagare fossero solo Feltri e Sallusti, due vasi di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro.
[da PaoloCosta.net, del 10 ottobre 2010]
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