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Banche centrali, governi e fondi sovrani: gli strafalcioni di Scalfari

lettera firmata

10.05.2010 – Chi, come il sottoscritto, quando è uscito il primo numero di Repubblica aveva 26 anni, si può dire che ha completato la formazione con i "fondi" di Eugenio Scalfari. Non si può però evitare di notare che quando il "maestro" si abbandona ad analisi economiche in modo tecnico, capita anche a lui di inciampare in qualche strafalcione.

La Banca Centrale Europea Ricordo anni fa una volta discettò di teoria keynesiana e tassi di interesse ed il giorno dopo sulle stesse colonne Luigi Spaventa lo riprese severamente chiedendosi addirittura se Scalfari avesse scambiato qualche altro libro per la Teoria Generale di Keynes. Temo che nell'editoriale di domenica 9 intitolato «I giorni terribili dell'attacco all'euro» sia incorso in analoghi strafalcioni, un po' come capita spesso all'ineffabile Tremonti quando scrive di economia, perfino nei libri (non vorrei che la simpatia per il Ministro che notiamo di recente in Scalfari derivasse da questa comune debolezza).

L'articolo in questione contiene diverse imprecisioni, ma mi limiterò qui a rilevare gli errori più macroscopici:

  1. dopo la crisi non sono stati "i governi", con i fondi sovrani, come dice Scalfari, ad immettere liquidità nei mercati ma le banche centrali dei diversi paesi, tra cui la Banca Centrale Europea. I governi semmai hanno aumentato la spesa pubblica o diminuito le tasse, e l'aumento del debito deriva da questo (oltre che dalle minori entrate fiscali per il calo degli affari) e non dall'immissione di liquidità;

  2. a detta di Scalfari ora questi "fondi sovrani" sarebbero sotto attacco della speculazione. Sarebbe opportuno che Scalfari indicasse quali sono questi fondi sovrani dato che a noi non risulta che ne esistano in Europa o negtli USA. In realtà i "fondi sovrani" sono altra cosa da quella che sembra voglia indicare il fondatore di Repubblica. Essi non sono altro che "fondi di investimento" - che comprano imprese, società e banche in tutto il mondo (quindi non c'entrano nulla con la liquidità) -  la cui proprietà fa capo ad uno stato sovrano. Il caso più notevole conosciuto è quello che fa capo al governo cinese;

  3. la BCE non ha alcuna competenza in più o in meno rispetto alle altre banche centrali, e la sua forza si basa sulle stesse fondamenta delle altre, cioè il potere assoluto nel governo della moneta e dei tassi. Anche le precedenti banche centrali statali europee non avevano alcun potere sulla spesa delle pubbliche amministrazioni dei rispettivi stati, e di converso i governi non avevano alcun potere sulla moneta e sui tassi (in Italia il "divorzio" risale fin dai tempi di Andreatta), come pure non hanno alcun potere sui rispettivi governi le altre banche centrali. Non si capisce allora perchè la nostra BCE sarebbe più debole in quanto, a detta di Scalfari, le mancherebbe questo potere («la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano»). La relativa debolezza dell'euro non deriva, come Scalfari sostiene, dalla debolezza della BCE, che per contro è fortissima, ma dal fatto che, entro certi limiti, ogni governo può fare come gli pare nel campo del bilancio pubblico e può perfino falsificare i bilanci. Esattamente come era prima per i singoli stati nazionali, nei rapporti con le rispettive banche centrali, ed esattamente come è la situazione in USA circa i rapporti tra Federal Reserve e governo federale. La separazione, il divorzio, opera nei due sensi.


Per concludere, l'attuale situazione non evidenzia una debolezza tipica ed esclusiva della BCE ma semmai un debolezza della politica economica governativa comune visto che un singolo paese può "deragliare" e far trovare nei guai tutti gli altri. Se finalmente si arrivasse ad una politica economica comune, non è che per questo lo statuto o la prassi della BCE cambierebbero. Essi sarebbero uguali a quelli attuali che, ripetiamo, sono uguali a quelli delle banche centrali degli altri stati.

 

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I giorni terribili dell'attacco all'euro

di EUGENIO SCALFARI

Due giorni terribili e una terribile nottata tra i capi dei governi europei, mentre crollavano le Borse di tutto il continente e Wall Street addirittura precipitava di mille punti in pochi minuti. Un errore umano? Molto peggio: l'errore umano aveva messo in moto le tecnologie computerizzate che avevano trasmesso l'ordine di vendere a tutti gli operatori collegati in rete. Così la tecnologia amplifica e soverchia le manchevolezze degli umani, dei quali sempre più spesso diventa padrona.
Quei minuti di panico si sono tuttavia protratti per tutta la giornata sulle due sponde dell'Atlantico; la riunione dei leader europei è durata otto ore, con lo spettro di che cosa potrà accadere lunedì alla riapertura dei mercati.

Lo spettro dell'affondamento dell'euro ha dato loro il coraggio che fin qui gli era
mancato. Soprattutto era mancato ad Angela Merkel, cioè alla Germania e alla Bundesbank che ne rappresenta il cuore monetario, ancora nostalgico del marco, abbandonato in favore della concezione europeistica di Kohl. C'è voluto un intervento diretto di Barack Obama sulla cancelliera della Germania federale per farle comprendere che la fase dei "se" e dei "ma" doveva essere superata e che non era più questione di giorni ma di ore se non addirittura di minuti per prendere le decisioni necessarie. Si vedrà domani se i mercati si stabilizzeranno e se la speculazione concederà alla politica una pausa di respiro.

I provvedimenti decisi dal vertice europeo sono stati, finalmente, all'altezza della sfida: la disponibilità della Bce, ovviamente con decisione autonoma, ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco e la decisione della Commissione di Bruxelles di mobilitare 70 miliardi di euro accantonati nel bilancio dell'Unione per far fronte alle calamità naturali e usarli invece per prestiti immediati ai Paesi in difficoltà.

La frustata che gli speculatori hanno dato ai governi li ha finalmente risvegliati dall'ipnosi e li costringerà a reagire?


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La novità delle ultime quarantott'ore è questa: i governi hanno capito che l'attacco della speculazione non è più soltanto contro la Grecia. L'obiettivo è assai più alto, il dissesto dell'economia greca ne è stato soltanto il detonatore, ma ormai è chiaro quale sia il bersaglio: l'euro, la moneta unica europea, la tenuta del sistema europeo e la sua necessaria evoluzione politica. L'aveva già scritto qualche giorno fa Mario Pirani su queste pagine e l'ha detto giovedì scorso con chiarezza il ministro Tremonti alla Camera. C'erano solo cinquantotto deputati ad ascoltarlo e quasi tutti dell'opposizione, il che non depone a favore della sensibilità europeistica del nostro Parlamento e sottolinea il suo inguaribile provincialismo.

A questo punto le domande che dobbiamo porci sono tre: perché la speculazione attacca l'Europa, le sue Borse, la sua moneta? Quali sono, tecnicamente e politicamente, i punti deboli dell'Unione europea? Quali sono le terapie necessarie per difenderci? Possiamo aggiungere anche una quarta domanda: chi sono gli speculatori? È mai possibile che abbiano tanti mezzi e tanto coraggio da partire in battaglia contro una struttura di dimensioni continentali che coincide con l'area più ricca del mondo?

Questa quarta domanda è preliminare alle altre e va dunque affrontata per prima. La speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni. La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato. Il mercato consiste in un luogo organizzato dove si registrano  -  attraverso la domanda e l'offerta  -  le aspettative di un'immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l'aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo.

La crisi di due anni fa partì dalla bolla immobiliare americana e si propagò con la velocità del fulmine in tutto il mondo. Fu la prima vera prova della globalizzazione finanziaria. Si confrontarono le aspettative ribassiste e deflazionistiche con la risposta dei governi, a cominciare da quello americano. I governi riuscirono a gestire la crisi e a controllare le aspettative ma pagarono un prezzo altissimo: dovettero iniettare sul mercato migliaia di miliardi di liquidità accumulando debiti immensi. Sono stati chiamati "debiti sovrani" e "fondi sovrani" sono stati chiamati gli enti preposti alla loro gestione.

L'uscita dalla crisi prevede che i debiti sovrani siano riassorbiti gradualmente ma in un periodo relativamente breve di tre o quattro anni. Ogni sistema, ogni fondo sovrano effettuerà l'operazione di assestamento secondo i propri mezzi e le proprie scelte; l'inflazione sarà inevitabilmente una scelta comune, non facile da guidare e difficilissima da far accettare alle pubbliche opinioni. Ma ancora più difficile sarà l'assestamento basato sul taglio di spese, inasprimento di imposte, disagio sociale. Il caso greco ne è la più lampante dimostrazione anche perché è maturato su un terreno politicamente e socialmente friabilissimo.
Adesso è la volta dell'Unione europea, la crisi si è concentrata su quell'obiettivo. Come ha ricordato Tremonti, la parola crisi in greco significa discontinuità.


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Perché la speculazione attacca la moneta europea, le sue Borse, le sue banche? La risposta è semplice: la speculazione attacca i fondi sovrani europei, cioè la struttura finanziaria dell'Unione attraverso gli Stati che la compongono e cerca di colpire la stessa Banca centrale europea, cioè il cuore dell'Unione, il solo ente veramente autonomo e veramente federale che gli Stati abbiano finora saputo esprimere.
La speculazione, cioè l'insieme delle forze che operano nei mercati internazionali, sa da tempo che la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano. Questa situazione le conferisce il massimo di indipendenza, ma al tempo stesso il massimo di solitudine e di fragilità. La politica monetaria è interamente nelle mani della Bce e di conseguenza sono di sua esclusiva spettanza la quantità di moneta in circolazione, il tasso ufficiale di sconto, le operazioni di mercato aperto.  

Ma gli Stati membri mantengono il completo dominio delle rispettive politiche di bilancio, delle rispettive politiche fiscali, della spesa pubblica sia nazionale sia locale, degli incentivi, delle pubbliche retribuzioni, dell'organizzazione del "welfare". I meccanismi di coordinamento sono blandi e nella maggioranza dei casi si risolvono in raccomandazioni. Il bilancio amministrato dalla Commissione di Bruxelles non ha alcuna vera flessibilità.

Insomma l'Europa è ancora lontanissima dall'essersi data una struttura federale e politiche comuni, anzi unificate, con massicci trasferimenti di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo nel campo della politica estera, di quella della difesa, dei diritti e dei doveri, delle elezioni parlamentati e del governo dell'Unione.
La speculazione conosce perfettamente questa situazione ed ha interesse a bloccare qualsiasi sviluppo dell'Unione verso un assetto federale. L'ideale per le forze di mercato è che esso sia regolato il meno possibile e che il potere economico, soprattutto nei suoi aspetti finanziari, sia il solo dominante nello spazio globale del pianeta.

Questa è dunque la posta, la quale tuttavia comporta anche una contro-indicazione: se gli Stati nazionali membri dell'Unione hanno chiaramente capito la pericolosità estrema dell'attacco, vorranno e sapranno elaborare una risposta che sia all'altezza della crisi? Vorranno affrontare il problema della sovranazionalità europea cedendo all'Unione la parte politica della loro sovranità? O si limiteranno a rendere più strette le maglie del coordinamento tra le loro politiche nazionali?

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La crisi in corso contiene dunque un pregio, l'abbiamo già detto: ha reso attuale e non oltre procrastinabile il tema dello Stato federale europeo. Purtroppo non sembra che l'evidenza e l'urgenza di risolverlo siano in grado di indurre le classi dirigenti e le opinioni pubbliche nazionali a varcare finalmente la soglia di un vero federalismo. Mancherà certamente il contributo della Gran Bretagna, ancora irretita dal mito anglosassone e dalla relazione speciale tra Londra e Washington.
Quanto agli Stati europei del continente, non sembra che dispongano di una visione europea unitaria. Una classe dirigente europea e un'opinione pubblica europea capaci di sospingerli e costringerli non esistono. Ci sono singoli individui e ristretti ambiti sociali minoritari, niente di più.

Se debbo esprimere un'opinione personale, credo che l'attacco in corso contro l'attuale sistema europeo si attenuerà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, ma non sarà affatto sgominato. Verrà contenuto, questo è probabile, ma preparerà ulteriori ondate. Voglio dire insomma che la crisi non è alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi con tutta la sua terribilità.

 

[da "la Repubblica" del 9 maggio 2010, pag. 1]


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