Guido Scorza
27.09.2011 – A Berlusconi la Rete libera e diffusa dà fastidio: gli toglie consenso politico e sottrae investimenti pubblicitari alle sue tivù. Ecco perché tenta di nuovo di disincentivarla. Con una strategia semplice: quella della paura
Immaginate una bilancia - quella della celebre immagine della giustizia che continua a campeggiare nelle aule dei nostri Tribunali - e mettete da una parte il diritto all'informazione e la libertà di parola e dall'altra il presunto diritto di pochi a parlare, senza essere ascoltati da magistrati e forze dell'ordine, anche quando la chiacchierata è finalizzata ad ordire crimini e reati e soprattutto, quello altrettanto discutibile - per non dire inesistente - a che la stampa non racconti le loro malefatte.
Se, a questo punto, fate prepotentemente pendere la bilancia dalla parte della tutela dell'interesse di pochi – e potenti – ad impedire alla magistratura ed ai media di fare il loro dovere, otterrete la più plastica immagine del perverso ed inaccettabile esperimento di ingegneria normativa che la maggioranza intende realizzare nei prossimi giorni. Oggetto di questa mostruosa alchimia è il ddl intercettazioni che nelle prossime ore tornerà in discussione (si fa per dire giacché il testo appare destinato ad essere blindato dal voto di fiducia e, quindi, ci sarà ben poco da discutere) in Parlamento. Che il ddl intercettazioni rischi di spuntare le armi alla giustizia, fornire straordinari scudi a ladri e politici corrotti e mettere un cerotto sulla bocca dei media italiani è, ormai, sfortunatamente circostanza nota.
Meno noto - ancorché già ripetutamente denunciato - è che il nostro Parlamento, su mandato del Governo, approvando il ddl intercettazioni nella sua attuale formulazione, sta per commettere uno dei peggiori delitti che possano essere commessi nel secolo della Rete: privare ogni cittadino italiano del diritto di parola sul web o, almeno, rendere tanto rischioso e pericoloso esercitare tale diritto da suggerire ai più di rinunciare a farlo.
Nel testo del disegno di legge che, sin dalla scorsa estate giace in Parlamento in attesa che una nuova emergenza giudiziaria del Premier ne rendesse urgente l'approvazione, infatti, c'è una piccola norma della quale è pressoché impossibile ricostruire la genesi, in forza della quale si vorrebbe estendere a tutti i "gestori di siti informatici" – quindi blogger inclusi – l'applicabilità dell'istituto della rettifica disciplinato dalla vecchia legge sulla stampa, datata 1948, una delle poche leggi ancora vigenti scritte direttamente dall'assemblea costituente, in un'epoca nella quale Internet non era, ovviamente, ancora neppure fantascienza. Secondo quanto disposto dal comma 29 dell'art. 1 del disegno di legge tutti i gestori di siti informatici dovrebbero provvedere, entro 48 ore dall'eventuale richiesta da parte degli interessati – fondata o infondata che sia – a rettificare ogni genere di informazione pubblicata a pena, in caso di mancata tempestiva rettifica, di incorrere in una sanzione fino a dodici mila euro.
Al riguardo è importante esser chiari. Il punto non è sottrarre la blogosfera da ogni responsabilità per la pubblicazione di contenuti suscettibili di ledere gli altrui diritti ma, piuttosto, quello di non pretendere da un blogger la stessa reattività che la legge pretende da un giornale o da una televisione e non minacciare un blogger con una sanzione che mentre rappresenta per un giornale una delle tante componenti del rischio di impresa, costituisce per lui una condanna irrevocabile alla chiusura. Un blogger - salvo eccezioni - sarà portato a rettificare "per paura" di vedersi altrimenti irrogare una sanzione da dodici mila euro e non già perché certo di dover rettificare per aver violato un altrui diritto mentre i media tradizionali, dinanzi ad una richiesta di rettifica, ci pensano, ci riflettono, la esaminano, la fanno esaminare ad avvocati e legulei e, poi, solo se davvero convinti di dovervi procedere, vi provvedono.
Imporre un obbligo di rettifica a tutti i produttori "non professionali" di informazione, significa, quindi, fornire ai nemici della libertà di informazione, una straordinaria arma di pressione - se non di minaccia - per mettere a tacere le poche voci fuori dal coro, quelle non raggiungibili, neppure nel nostro Paese, attraverso una telefonata all'editore e/o al principale investitore pubblicitario. Si tratta, d'altra parte, di una conclusione alla quale, nelle scorse ore, è arrivata anche Giorgia Meloni, Ministro della Gioventù che ha, infatti, riconosciuto come «Esiste una differenza abissale tra un blog, magari gestito da un ragazzo, un giornale e una televisione. Applicare per entrambi la stessa legge è sicuramente un errore». Per difendere l'interesse all'impunità di pochi - o, forse, addirittura di uno solo - il Parlamento sta, dunque, tra l'altro, per iscrivere un'esosa ipoteca sul futuro dell'informazione libera in Rete. Non resta che sperare – sebbene si tratti di una speranza davvero flebile – che il Parlamento si rifiuti di staccare alla spina alla Rete che conosciamo e che rappresenta un irrinunciabile risorsa per il futuro del Paese e che, posto davanti all'alternativa, preferisca, piuttosto, staccare la spina ai dinosauri di Palazzo.
[pubblicato su l'Espresso online del 27 settembre 2011]
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