Guido Scorza
09.01.2011 –  Il dipartimento della giustizia americana ha ordinato a Twitter di fornirgli tutti i dati e le informazioni in suo possesso in relazione ad una serie di accounts facenti capo a Julian Assange, Brigitta Jònsdottir (la parlamentare islandese promotrice della Icelandic Modern Media Initiative), Bradley Manning (il soldato accusato di aver comunicato a Wikileaks le informazioni trafugate dagli archivi del Pentagono) ed altri attivisti di Wikileaks.
L’ordine,  stando a quanto si apprende, sarebbe stato trasmesso a Twitter il 14  dicembre scorso con esplicita richiesta di non informare neppure i  titolari degli account oggetto di investigazione dell’ordine stesso.  Successivamente, tuttavia, il 5 gennaio, la consegna del segreto verso i titolari degli account sarebbe stata revocata e questi ultimi sarebbero stati,  quindi, informati dell’indagine in corso. Stando a quanto si legge  nell’ordine di acquisizione delle informazioni presso Twitter, i dati e  le informazioni richieste risulterebbero necessari nell’ambito di un  procedimento penale attualmente pendente.
 Il Dipartimento della Giustizia statunitense, dopo settimane di attesa e  minacce indirette, sembrerebbe, dunque, aver rotto ogni indugio ed  essere ora intenzionato a trascinare Julian Assange e quanti lo hanno  sin qui supportato, sul banco degli imputati, anche se  non è dato sapere quale sia esattamente il reato contestatogli. Si  tratta, tuttavia, presumibilmente di cospirazione in danno degli Stati  Uniti d’America. Siamo ad un passo da un’autentica dichiarazione di guerra all’informazione del XXI secolo.
 Il dipartimento della Giustizia Usa, quello del presidente Barack Obama che aveva manifestato l’intenzione di dar vita alla più trasparente amministrazione nella storia degli Stati Uniti d’America, chiede ad un fornitore di  servizi di comunicazione elettroniche di fornirgli dati ed informazioni  relativi all’attività online svolta da una parlamentare di un paese  straniero.
 Si tratta, come ha già annotato il ministro dell’Interno islandese di un fatto gravissimo,  soprattutto se si considera che il crimine per il quale si procede  consiste, nella sostanza – in attesa di conoscere la contestazione  formale – nell’aver contribuito alla diffusione di informazioni di  indubbia rilevanza per l’opinione pubblica, ma classificate come segrete  dalla stessa amministrazione procedente.
 E’ difficile – peraltro senza conoscere regole e riti del diritto  statunitense – prevedere come andrà a finire e, soprattutto, capire se  l’amministrazione Usa sta “solo” mostrando i muscoli e cercando  goffamente di fare terra bruciata attorno a Julian Assange o, piuttosto,  crede davvero di poter portare alla sbarra Wikileaks ed  addirittura la parlamentare islandese, rea, per quanto sin qui noto, di  aver proposto un disegno di legge volto a trasformare l’Islanda in un  “paradiso dell’informazione”.
 E’, però, fuor di dubbio che soffia vento di guerra dagli Usa e che la  guerra in questione, quella che potrebbe scoppiare nelle prossime ore,  sarebbe uno dei conflitti più “immateriali” della storia dell’uomo ma,  ad un tempo più devastanti: si tratterebbe, infatti, di una guerra a colpi di informazioni contro l’informazione.  Troppo difficile, stando seduti da questa parte dell’oceano, capire chi  ha ragione e chi ha torto a norma di legge e, persino, se ed in che  misura sia il diritto americano a dover essere utilizzato per dirimere  il conflitto ma, è egualmente difficile non trovare miope e donchisciottesca la reazione statunitense.
 Julian Assange e Wikileaks non sono che la punta dell’iceberg di un universo dell’informazione che, ormai, si è fatto largo  nell’oceano della Rete. Metterli a tacere – ammesso che ciò sia  possibile – non varrà a tornare indietro nel tempo ed a restituire al  segreto di stato l’impenetrabilità di ieri. E’ facile prevedere che il  posto di Wikileaks e dei suoi verrà presto preso da altri che,  magari, questa volta, agiranno con il volto coperto sotto un  passamontagna digitale e sfrutteranno le leggi, non lontane a venire, di  un paese che, come l’Islanda, scelga di ergersi a paradiso della  libertà di informazione e di sfidare, così, le leggi americane,  proprio come, sino a ieri, molti paesi costituiti da pugni di sabbia  nell’oceano, hanno sfidato i regimi tributari delle nazioni più ricche e  potenti.
 E’ un peccato che tanta miopia politica – sfortunatamente diffusa nella gerontocrazia di Palazzo – abbia colpito anche l’amministrazione di Barack Obama,  quella che si era candidata ad essere la più trasparente della storia e  la protettrice degli informatori ed oggi, per uno strano scherzo del  destino, si trova a combattere una guerra contro un “eccesso di  trasparenza” o, piuttosto, contro un “abuso dei media e della libertà di  espressione”.
[da IlFattoQuotidiano.it dell'8 gennaio 2011]

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