Guido Scorza
07.12.2010 –  In anteprima, un pezzo per Il Fatto Quotidiano, a proposito sull’Affaire Wikileaks:
Julian Assange è un uomo e Wikileaks una piattaforma per la condivisione di informazioni.
 Il primo e la seconda possono essere messi a tacere.
 Gli Stati Uniti d’America e, con essi, i Governi di decine di altri  Paesi al mondo hanno, ormai, un conto in sospeso con Assange e,  sfortunatamente, è difficile pensare che, in un modo o nell’altro, non  lo chiameranno a saldare il proprio debito, vero o presunto.
 Allo  stesso modo la piattaforma Wikileaks, per sopravvivere, ha bisogno di  risorse economiche e tecnologiche e, da più parti, giungono segnali che  lasciano ritenere che le fonti di denaro e tecnologia che la tengono in  vita potrebbero, presto, esaurirsi o, comunque, essere chiuse sotto la  pressione di questo o quel potere politico ed economico.
 Non  c’è, tuttavia, alcun dubbio che ridurre al silenzio Assange o,  piuttosto, trasformare Wikileaks in un ammasso inservibile di bit e  ferraglia, costituirebbe una vittoria di Pirro per quei Governi che, nelle ultime settimane, hanno emesso le condanne più dure così come per la diplomazia internazionale.
 Gli uni e l’altra, infatti, hanno ormai dimostrato la loro  straordinaria debolezza e reso evidente come a metterli in ginocchio sia  sufficiente un pugno di bit che può stringersi in un hard disk delle  dimensioni di un paio di pacchetti di sigarette e viaggiare da  Washington a Dubai in qualche secondo.
 Il caso Wikileaks ha reso  evidente al mondo intero che anche i più grandi tra i Governi sono, in  realtà, giganti dai piedi di argilla, argilla costituita dall’illusione  di poter governare sterminati Paesi ormai attraversati da reti di  comunicazione elettronica di straordinaria estensione ed enorme capacità  sulla base di segreti, segretucci ed informazioni classificate ma  lasciate accessibili a migliaia di individui a loro volta interconnessi –  dalle reti elettroniche e da quelle sociali – a centinaia di migliaia  di altri individui che rispondono a leggi, religioni, tradizioni e  culture diverse e lontane.
 Nel XXI Secolo, in quella che Jeremy  Rifkin chiama l’Era dell’accesso e che, meno prosaicamente, l’Unione  Europea definisce società dell’informazione, non c’è segreto che possa  ambire a restare tale per sempre.
 La sicurezza dei sistemi è  una condizione di eterna ambizione ed aspirazione ma giammai uno stato  di fatto e la fedeltà degli uomini, ad altri uomini, alle leggi, alle  regole, alla patria o, piuttosto, ai principi è inesorabilmente sfidata  dal tempo e dagli eventi.
 Oggi basta una falla nella rete sociale o  tecnologica alla quale il segreto è affidato perché il numero di persone  tra le quali esso era destinato ad essere condiviso, sia moltiplicato  migliaia di volte in un intervallo di tempo breve quanto il battito di  ali di una farfalla.
 In un contesto di questo genere  il  silenzio indotto di Julian Assange o, piuttosto, lo spegnimento forzato  di Wikileaks, evidentemente, non risolverebbero il problema: decine di  migliaia di novelli Assange sono pronti a prendere il  posto del misterioso australiano che sta facendo tremare il mondo e ad  accendere nuove piattaforme eredi dell’attuale ma ancor più potenti e  penetranti.
Serve un nuovo approccio alla gestione dell’informazione,  solo un radicale ripensamento del rapporto tra pubblico e segreto che  lo ribalti, può garantire ai Governi stabilità ed immunità dinanzi ad  episodi rispetto ai quali quelli che si stanno consumando in queste  settimane, sembreranno, presto, solo copie sbiadite.
 I Governi e la diplomazia internazionale devono abituarsi a convivere con la trasparenza e rendere il segreto – che sin qui è stato la regola – un’eccezione a cui ricorrere con straordinaria parsimonia.
 E’ l’abuso del segreto come strumento di Governo il responsabile ultimo  della fragilità che, in queste ore, stanno mostrando gli uomini ed i  Governi più potenti del mondo nell’immaginario collettivo.
 Il  responsabile di quanto sta accadendo, non è Julian Assange o Wikileaks  ma la perversa idea che il funzionamento della diplomazia internazionale  o il Governo di un Paese potessero aver bisogno davvero di mantenere  segreta la speciale relazione tra il nostro premier e Vladimir Putin o,  piuttosto, l’arcinota follia che, da decenni, guida la mente del leader  libico Gheddafi.
 Dinanzi a simili ingenuità ed errori di  calcolo, dinanzi all’evidente sopravvalutazione del proprio apparato di  sicurezza e della propria intelligence ma, soprattutto, dinanzi alla  straordinaria sottovalutazione del fenomeno internet,  persino, da parte della nazione che vi ha dato i natali, studiandola,  appositamente perché garantisse la comunicazione tra nodi addirittura in  caso di un evento bellico, l’indice che la comunità internazionale –  con davvero poche eccezioni – sta puntando contro Julian Assange ed i  suoi server, appare puerile, infantile, proprio del ragazzino che  sorpreso con le mani nel barattolo di marmellata, gioca la sua ultima  disperata carta, tentando di additare come responsabile il suo compagno  di banco.
 Difficile, sotto un profilo strettamente giuridico,  dire se Julian Assange, prima o poi, verrà davvero condannato – in un  modo o nell’altro – per aver violato il segreto di questo o quel Governo  ma è, invece, quasi certo che Assange ed i suoi server hanno, ormai,  definitivamente condannato i Governi di tutto il mondo a rinunciare a  buona parte dei loro segreti.
 E’ solo in questa prospettiva che  le parole di quanti hanno paragonato la pubblicazione dei dispacci di  Wikileaks ad un nuovo 11 settembre, possono essere condivise: proprio  come dopo l’11 settembre nulla, in nessun Paese al mondo, è rimasto come  prima, allo stesso modo, dopo il ciclone Wikileaks e le rivelazioni di  questi giorni, nulla potrà tornare come prima.
 E’ una constatazione che può convincere o non convincere ma che appare difficilmente superabile.
Ma Assange è davvero un criminale? Un pirata dell’informazione?
 E’ una domanda alla quale temo sia difficile dare una risposta  universalmente valida e coerente con la cultura giuridica e le regole  delle centinaia di Paesi del mondo scossi dal ciclone Wikileaks.
 Personalmente, però, non so trattenermi dal considerare che, specie in  un Paese come il nostro, la cui storia è disseminata da un’interminabile  scia di “segreti di Stato”, spesso eretti a tutela degli interessi di  pochi e contro il diritto dei più alla conoscenza della verità, la  possibilità che domani Assange pubblicasse documenti capaci di svelare,  ad esempio, cosa accadde nei cieli di Ustica poco prima  che il DC9 dell’Itavia si inabissasse o piuttosto, se e chi, nel  Palazzo, ha firmato o anche solo avvallato la strage di Capaci piuttosto che quella di Via d’Amelio, andrebbe salutata come un auspicio o una speranza più che come un rischio o una preoccupazione.
[da GBLOG del 7 dicembre 2010]
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