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Gli errori di un giurista in un editoriale della Stampa

Società Pannunzio

28.05.2009 – Andreotti e LimaLETTERA INVIATA DALLA SOCIETÀ PANNUNZIO AL DIRETTORE DE "LA STAMPA", MARIO CALABRESI

Roma 28 maggio 2009

Egregio Direttore, il suo editorialista Carlo Federico Grosso in un articolo su “La Stampa”, 21 maggio 2009, intitolato “L’arbitro non va mai fischiato”, comincia il suo pezzo con “Andreotti è stato, in passato, ingiustamente accusato di attività mafiosa ecc”. Sappiamo tutti che le opinioni sono sacre, ma altrettanto sacri sono i fatti. E Grosso, che è un illustre giurista, sa sicuramente che nel 1984 la Corte di Cassazione emise una famosa sentenza in cui affermava che “la verità dei fatti, cui il giornalista ha il preciso dovere di attenersi, non è rispettata quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato. La verità non è più tale se è “mezza verità” (o comunque, verità incompleta): quest’ultima, anzi, è più pericolosa della esposizione di singoli fatti falsi per la più chiara assunzione di responsabilità (e, correlativamente, per la più facile possibilità di difesa) che comporta, rispettivamente, riferire o sentire riferito a sé un fatto preciso falso, piuttosto che un fatto vero sì, ma incompleto. La verità incompleta (nel senso qui specificato) deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa”. Fin qui la Cassazione. Quindi Grosso ha scritto il falso quando ha omesso che la sentenza della Corte d’Appello di Palermo, che mandava assolto l’on. Giulio Andreotti con la motivazione che dopo il 1980 non erano a sufficienza provati (c.2 art. 530) i rapporti tra l’imputato e i capimafia corleonesi Rijna e Provenzano, aggiungeva che al contrario era provato, ma caduto in prescrizione per soli quattro mesi, il reato di «vera e propria partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo», almeno fino alla primavera del 1980. L’anno dopo, la Corte di Cassazione confermava la sentenza di appello, ribadendo: «Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione».

Sarebbe onesto che i vostri lettori conoscessero i fatti non stravolti, soprattutto in un editoriale di apertura della prima pagina.

IL DIRETTORE DE "LA STAMPA", MARIO CALABRESI, NON HA PUBBLICATO NE' QUESTA LETTERA NE' ALCUNA PRECISAZIONE


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