Guido Scorza
07.10.2012 – Il ROC, il Registro degli operatori di comunicazione, è stato istituito con la funzione di rendere pubblici e trasparenti i dati relativi alle imprese proprietarie di giornali, radio, televisioni, agenzie di stampa e operatori di Rete.
Sapere chi paga la produzione e diffusione dell’informazione è un’irrinunciabile forma di trasparenza per il lettore che, anzi, avrebbe bisogno di conoscere anche chi e quanto investe, in pubblicità, sui nostri media.
Il ROC è tenuto per legge dall’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni la quale dovrebbe garantire anche l’accesso del pubblico ai dati ed alle informazioni contenute nel registro.
Non c’è nessuna ragione, infatti, perché la proprietà di un giornale – spesso, peraltro, finanziato con risorse pubbliche – dovrebbe essere un “segreto di Stato”.
Dopo anni di secretazione totale – a fatica e solo di recente – l’Autorità aveva, bontà sua, deciso di consentire l’accesso al pubblico alle sole anagrafiche del registro: si poteva cioè sapere se una certa società era registrata, da quando ed in relazione a quale tipologia di media.
Una funzione priva di qualsivoglia utilità. Uno specchietto per le allodole dinanzi ad eventuali contestazioni di scarsa trasparenza.
Nei giorni scorsi, poi, è accaduto l’incredibile.
Con una delibera del 4 settembre, l’Autorità ha deciso di integrare il ROC nel portale governativo impresainungiorno.gov.it.
Una misura di semplificazione o, almeno, così è stata annunciata in un comunicato stampa congiunto di AGCOM e Unioncamere.
Peccato, però, che gli effetti – voluti o non voluti conta davvero poco – dell’iniziativa, siano ben altri dall’annunciata semplificazione.
Innanzitutto, per ragioni francamente incomprensibili, l’accesso al ROC attraverso il sito www.roc.agcom.it è stato bloccato dal 1° ottobre nella consapevolezza che, realisticamente, il registro non avrebbe potuto essere accessibile – come, infatti, non lo è – attraverso il nuovo portale impresainungiorno.gov.it, prima del 16 ottobre.
Anche ad ammettere che la migrazione da un portale ad un altro di qualche dato imponga delle esigenze tecniche, sarebbe stato così difficile lasciare, almeno consultabile, un clone del registro attraverso l’ordinario sito dell’AGCOM?
E’ ammissibile l’interruzione di un servizio pubblico per quindici giorni senza nessuna seria motivazione tecnica?
La risposta, naturalmente, è no.
E’ un autentico abuso che potrebbe avere anche rilevanza penale ma, soprattutto, è un grave episodio di gestione della cosa pubblica come si trattasse di cosa privata.
La nuova AGCOM, sotto tale profilo, si presenta legata alla vecchia più che da una sottile linea rossa, da un vero e proprio cordone ombelicale.
D’altra parte sono figlie della stessa politica.
Ma non basta.
A quanto si apprende da un comunicato nel quale si imbatte chi cercasse di accedere al registro [pubblico] degli operatori di comunicazione attraverso il solito indirizzo, quando, finalmente, il registro riaprirà i battenti per accedervi sarà necessario disporre della Carta Nazionale dei Servizi, un documento di identità, mix di dati e silicio, figlio di una delle tante rivoluzioni digitali italiane, che, nel nostro Paese, non usa praticamente nessuno.
Non è chiaro – anche se nel comunicato si parla di “accesso al registro” – se la CNS servirà per le sole attività di registrazione e modificazione o, anche, per la consultazione del registro ma, quale che sia l’interpretazione corretta [n.d.r. e premesso che non tocca al cittadino sforzarsi di capire la pubblica amministrazione ma alla pubblica amministrazione farsi capire dai cittadini], quel che è certo è che ora iscriversi al registro o consultarlo è diventato più complicato di ieri.
Altro che semplificazione e, soprattutto – se la CNS fosse necessaria anche per l’accesso alle poche informazioni, sin qui, rese disponibili – altro che trasparenza.
Il Registro pubblico si avvia a diventare più segreto di sempre.
A questo proposito è un peccato che in AGCOM non abbiano letto quanto sta accadendo in Brasile dove, il Parlamento, si preoccupa esattamente di problemi di questo genere: evitare che, imponendo il ricorso a tecnologie poco diffuse per l’accesso a banche dati pubbliche – come quella della giustizia – si restringa e limiti, nei fatti, la libertà di accesso dei cittadini a informazioni che li riguardano.
Siamo lontani anni luce da quel Paese digitale e trasparente del quale avremmo un disperato bisogno ed è davvero un peccato constare che, persino, le Autorità indipendenti alle quali i cittadini dovrebbero guardare con fiducia ed alla ricerca di supporto, giochino la partita nell’altra metà del campo.
[Pubblicato su l'Espresso l'8 ottobre 2012]
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