CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI: DECISIONE FELTRI, CASO BOFFO

CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI

Decisione n. 75/2010

 

IL CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI

riunito a Roma presso l'Hotel Massimo D'Azeglio in Via Cavour 18 i giorni 10, 11 e 12 novembre 2010, con la presenza della maggioranza dei suoi componenti a norma dell'art.23 della legge 3.2.1963 n.69, ha adottato la seguente

DECISIONE

sul ricorso presentato I'11.5.2010 dal sig. Vittorio FELTRI, nato a Bergamo il 25.6.1943 ed elettivamente domiciliato presso lo Studio Legale Fava & Associati in Milano - Via Podgora 11

avverso

la sanzione disciplinare delia sospensione per sei mesi deliberata dal Consiglio regionale dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia in data 25.3.2010 e notificata il 12.4.2010.

 

In data 11 maggio 2010 Vittorio Feltri ha presentato rituale ricorso per l'annullamento, revoca o riforma del provvedimento, chiedendo anche la sospensione dell'efficacia esecutiva della sanzione.

Fatto

In data 28 agosto il quotidiano «Il Giornale» pubblicava in prima pagina un articolo dal titolo: «Il supermoralista condannato per molestie -Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi italiani e impegnato nell'accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con il quale aveva una relazione». Occhiello: «Incidente sessuale del direttore di "Avvenire"». Il titolo era a tutta pagina e l'articolo, a firma di Vittorio Feltri, proseguiva in pagina 3 corredato da una cronaca, sullo stesso argomento, a firma del giornalista Gabriele Villa.

Nel testo dell'articolo Feltri riportava gli elementi sunteggiati nel titolo e una serie di critiche di natura politica verso Boffo. Nella cronaca di Gabriele Villa - pubblicata ugualmente con titolo su sette colonne - nella terza pagina del giornale, si aggiungeva un ulteriore particolare ricavato da una presunta «informativa» allegata alla decisione del Tribunale: «Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizìa di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione. Rinviato a giudizio il Boffo chiedeva il patteggiamento e, in data 7 settembre del 2004, pagava un'ammenda di 516 euro, alternativa ai sei mesi di reclusione. Precedentemente il Boffo aveva tacitato con un notevole risarcimento finanziario la parte offesa, che per questo motivo, aveva ritirato la querela». Per questo articolo il giornalista Gabriele Villa veniva giudicato separatamente dal Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia e sanzionato con la censura.

Il giorno 29 agosto, «Il Giornale» pubblicava - con identico risalto e sempre con prosecuzione in pagina 3 - un secondo articolo a firma di Vittorio Feltri dal titolo: «La rabbia dei moralisti smascherati. Dino Boffo non smentisce i fatti a lui attribuiti. La Conferenza dei vescovi, imbarazzata, accenna a una minima difesa. Annullata la cena tra Berlusconi e il cardinal Bertone. Un gran polverone». Occhiello: «Le rivelazioni del "Giornale" sul direttore di 'Avvenire"». Nel testo a firma di Feltri, oltre a ribadirsi i contenuti del titolo, veniva aggiunto che «Quel Feltri — grida scandalizzato Boffo - è un killer. Tuttavia non ha smentito una riga di quanto scritto; già non poteva farlo, perché la notizia che lo riguarda è vera, e purtroppo per lui non è una sciocchezza irrilevante. Egli ha patteggiato nel Tribunale di Terni e pagato una sanzione pecuniaria per una storiaccia di molestie alla moglie di un uomo col quale il signor direttore Savonarola aveva una relazione omosessuale».

Nella stessa pagina 3, collocata sotto il titolo di apertura su 7 colonne, veniva pubblicato un testo a firma Dino Boffo, in realtà l'integrale dichiarazione data all'Ansa dal direttore di «Avvenire». Il titolo era: «La replica. Il giornalista minimizza: storia vecchia, non mi farò intimidire». Fra l'altro Boffo affermava: «Evidentemente il Giornale di Vittorio Feltri sa anche quello che io non so, e per avallarlo non si fa scrupoli a montare una vicenda inverosimile, capziosa, assurda. Diciamo le cose con il loro nome: è un killeraggio giornalistico allo stato puro, sul quale è inutile scomodare parole che abbiano a che fare anche solo lontanamente con la deontologia. Siamo, pesa dirlo, alla barbarie. Nel confezionare la sua polpettona avvelenata Feltri, tra l'altro, si è guardato bene dal far chiedere il punto di vista dell'interessato: la risposta avrebbe probabilmente disturbato l'operazione che andava (malamente) allestendo a tavolino alfine di sporcare l'immagine del direttore di un altro giornale e disarcionarlo».

In  data 4  dicembre  2009,  il  «Giornale»  tornava  sulla vicenda pubblicando nella parte più bassa della prima pagina il titolo su tre colonne: «"Boffo: ho avuto modo di vedere"». Occhiello: «Il caso è chiuso». Seguiva una breve lettera di una lettrice sulla vicenda «Avvenire» indirizzata al direttore e corredata da una risposta a firma di VF. Il testo della risposta presentava sette righe in prima pagina e il resto in un incorniciato  basso     a  pagina  40.  In  esso   si affermava  fra  l'altro: «Personalmente   non   mi  sarei  occupato   di Dino  Boffo,   giornalista prestigioso  e apprezzato,   se  non mi fosse stata consegnata  da  un informatore attendibile, direi insospettabile, la fotocopia del casellario giudiziale che recava la condanna del direttore a una contravvenzione per molestie telefoniche. Insieme,  un secondo documento  (una nota)  che riassumeva le motivazioni della condanna.  La ricostruzione dei fatti descritti nella nota, oggi posso dire, non corrisponde al contenuto degli atti processuali». E proseguiva riferendosi alla lettrice: «La "cosa", come lei dice, da piccola è così diventata grande. Ma forse sarebbe rimasta piccina se Boffo, nel mezzo delle polemiche (facile a dirsi, adesso), invece di segretare il fascicolo lo avesse reso pubblico, consentendo di verificare attraverso le carte che si trattava di una bagatella e non di uno scandalo. Infatti, da quelle carte, Dino Boffo non risulta implicato in vicende omosessuali, tantomeno si parla di omosessuale attenzionato».

In data 17 dicembre 2009, visto anche un esposto presentato dalla Società Pannunzio, il Consiglio dell'Ordine della Lombardia, dopo aver assunto sommarie informazioni, deliberava l'avvio d'ufficio dell'azione disciplinare. Il Consiglio lombardo contestava a Feltri i seguenti punti:

-         avere falsamente attestato la presenza della cosiddetta «informativa» all'interno del fascicolo processuale relativo al direttore di «Avvenire»;

-         avere pubblicato senza adeguata verifica una ricostruzione della vicenda rivelatasi - per successiva ammissione dello stesso Feltri -non corrispondente alla verità processuale;

-         avere violato il dovere di promuovere il rapporto di fiducia tra la stampa e i lettori, dando il via, sulla base di una informazione pubblicata senza adeguata verifica, a una pesantissima campagna politica e mass-mediatica nei confronti del giornalista Dino Boffo, che ne ha provocato le dimissioni, con enorme amplificazione dell'effetto diffamatorio della notizia pubblicata.

L'audizione dell'incolpato veniva fissata al giorno 22 febbraio 2010. Nel frattempo Feltri, attraverso i suoi legali, depositava in data 16 febbraio memoria difensiva nella quale sosteneva che:

-         si era limitato a pubblicare la notizia di un provvedimento giudiziario (condanna per molestie) di evidente interesse pubblico;

-         mai Boffo aveva chiesto ufficialmente rettifica o smentita;

-         non aveva avuto accesso agli atti del Tribunale di Terni perché secretati;

-         ha potuto chiarire alcuni equivoci, aspetto comunque più marginale della vicenda, appena presa visione del fascicolo processuale, pubblicando un tempestivo articolo chiarificatore;

-         ha rispettato comunque le condizioni di verità della notizia, in particolare il concetto di «verità sostanziale», pubblicando un testo di interesse sociale e dopo opportune verifiche delle informazioni e sulla attendibilità della fonte;

- non è stato violato il dovere di promuovere il rapporto di fiducia tra stampa e lettori poiché se Boffo si è dimesso non è stato certo per il preteso effetto diffamatorio della notizia pubblicata, dal momento che non può esserci offesa nel riferire le inclinazioni sessuali di qualcuno.

Nel corso dell'audizione l'incolpato ribadiva gli stessi concetti e, in particolare, insisteva sull'impossibilità di accedere agli atti in quanto secretati, sebbene da una serie di verifiche verbali gli venisse confermata l'esistenza della condanna. Precisava che l'informativa gli era stata presentata come il «riassunto» proprio di quegli atti, ribadendo di non aver fatto particolari indagini sulla presunta omosessualità di Boffo intanto perché le inclinazioni sessuali di una persona non costituiscono reato, poi perché non interessano i lettori e, infine, perché quelle di Boffo non erano sconosciute.

In data 3 marzo 2010, e dunque successivamente all'audizione di Feltri, il Consiglio acquisiva al fascicolo una e-mail inviata da Boffo alla presidente Gonzales e, informandone la difesa di Feltri, concedeva i termini (7 giorni) per presentare un'eventuale memoria.

In data 18 marzo 2010, la difesa di Feltri depositava ulteriore memoria in cui contestava l'acquisizione della e-mail di Boffo e ne chiedeva lo stralcio dal fascicolo. Le eccezioni si basavano sul fatto che:

-         non vi era certezza sulla provenienza della comunicazione;

-         Boffo non era legittimato a intervenire a qualsiasi titolo nel procedimento;

-         le pretese di Boffo erano infondate e incongruenti poiché aveva sottoscritto una transazione con il «Giornale» e perché in alcuni sms inviati a Feltri gli confermava stima e vicinanza.

In data 11 maggio 2010, la difesa di Feltri presentava rituale ricorso avverso la sanzione della sospensione per sei mesi dall'attività professionale inflitta dal Consiglio lombardo sostenendo che:

-        in via preliminare, non era utilizzabile la mail inviata da Boffo alla presidente Gonzales, in quanto arrivata da fonte non certa e a istruttoria chiusa; con la sua acquisizione veniva quindi leso il diritto alla difesa con la conseguente richiesta di annullamento dell'impugnato provvedimento;

-        ancora in via preliminare, eccepiva la mancata correlazione tra il capo di incolpazione e il provvedimento conclusivo poiché ai fini

-      della decisione diveniva preponderante la violazione del Codice di deontologia sulla privacy, in realtà mai contestata a Feltri; il   Consiglio   regionale   era   stato   influenzato   dai   «presunti retroscena» del cosiddetto caso Boffo restando così traviato dalla verifica di un'eventuale violazione di norme deontologiche;

-         il Consiglio, travalicando le sue naturali funzioni, cercava di ricostruire la vicenda seguendo i criteri di un processo penale e andando quindi alla ricerca di un «movente» degli articoli di Feltri;

-         la notizia dell'avvenuta condanna di Boffo per molestie era stata tratta da una fonte ufficiale, certa e inattaccabile poiché i fatti riportati erano contenuti in un estratto del certificato generale del casellario giudiziale, ove era indicata l'emissione di un decreto penale di condanna nei confronti di Boffo Dino, in data 9 agosto 2004 e divenuto esecutivo il 1° ottobre 2004, per il reato di cui all'art. 660 cp, al pagamento di un'ammenda di 516 euro, pagata in data 7 settembre 2004;

-         non era stata mai formulata contro il direttore Feltri l'accusa di «concorso morale» con un diverso autore del pezzo, riferendosi in questo all'articolo pubblicato da Gabriele Villa il giorno 28 agosto 2009 a pagine 3 del «Giornale», e delle cui dichiarazioni il Consiglio lombardo non aveva mai tenuto conto;

-         vi era una sproporzione fra la sanzione irrogata a Villa (censura) e quella della sospensione inflitta a Feltri;

-         non erano state considerate le dichiarazioni dello stesso Villa e del vicedirettore Sallusti circa le inequivocabili procedure poste in essere per verificare la notizia;

-         mai da parte di Boffo era stata avanzata una richiesta formale di rettifica, correzione, smentita o altro, dimostrando così una sostanziale acquiescenza a tutto quanto riportato da Feltri, sia per quanto riguardava il contenuto del decreto penale di condanna, sia con riferimento ai dati aggiuntivi provenienti da una fonte molto attendibile;

il legale di Boffo aveva impedito l'accesso agli atti giudiziari del suo assistito in concomitanza con la pubblicazione del 28 agosto e che quando Feltri aveva potuto prendere visione di tutto il fascicolo, ossia nei primi giorni del dicembre 2009, aveva potuto constatare che l'articolo di agosto conteneva delle inesattezze.

In data 15 giugno 2010 veniva depositato il rituale parere richiesto al Pg di Milano, nel quale si affermava che il provvedimento impugnato era «frutto di coerente valutazione delle emergenze acquisite avendo scandagliato con lucido argomentare e con rigore logico ogni sfaccettatura della complessiva vicenda (ed «caso Boffo») pervenendo a condivisibile interpretazione e applicazione delle norme in tema di deontologia professionale con corretta individuazione dei profili di responsabilità». Il parere concludeva chiedendo la conferma della responsabilità disciplinare ma mitigando la sanzione.

Diritto

Innanzitutto è da rilevarsi una inaccettabile impostazione del ricorso che pretenderebbe fosse la persona al centro di una notizia a dover provare la propria innocenza piuttosto che il giornalista a dimostrare la fondatezza delle sue accuse. Tale rovesciamento del principio di presunzione di non colpevolezza non solo contrasta con il dettato costituzionale (cfr. art. 27, comma 2), ma è categoricamente vietato dalla deontologia professionale (cfr. Carta dei doveri).

 

Eccezioni preliminari

Ciò premesso, vanno esaminate le due eccezioni preliminari poste dalla difesa di Feltri alla base dell'impugnativa. Entrambe sono infondate.

Il Consiglio regionale, per quanto abbia logicamente e ineccepibilmente motivato il suo diritto ad acquisire al fascicolo la mail inviata da Boffo, ha tuttavia ritenuto «intempestivo e inconferente» l'intervento dell'ex direttore di «Avvenire» dichiarando la mail «non utilizzabile» ai fini del giudizio» e dunque nessun diritto della difesa risulta leso. Per di più il Consiglio si era premurato di far pervenire alla difesa il testo della contestata mail e di assegnare un congruo termine per eventuali deduzioni. Quanto ai presunti condizionamenti che potrebbe aver creato nei consiglieri dell'Ordine lombardo, questi non sono provati né appare ragionevole credere che, dopo tutto il «polverone» sollevato dalla vicenda, una semplice mail abbia potuto alterare il sereno convincimento dei colleghi chiamati a giudicare.

Per quanto riguarda l'altra eccezione preliminare e cioè la presunta mancata correlazione tra il capo d'incolpazione e il provvedimento conclusivo, è evidente che il Consiglio non ha mai affrontato la vicenda sotto il profilo della violazione della privacy di Boffo. Anzi i primi giudici, proprio facendo ricorso alle deroghe previste del Codice di deontologia in materia   di   trattamento   dei   dati   personali,   hanno   ritenuto   lecita  la pubblicazione da parte di Feltri di dati sensibili riguardanti l'inclinazione sessuale di Boffo poiché essenziali alla comprensione della notizia (cfr. art. 6 Codice deontologia). Se la diffusione di tali dati non fosse avvenuta entro tale quadro, certamente la sanzione sarebbe stata più afflittiva una volta che la violazione del Codice fosse stata contestata nel capo d'incolpazione.

Anche l'eccezione circa la mancata formulazione di un capo d'incolpazione riguardante il «concorso morale» del direttore nella pubblicazione degli altri articoli sulla vicenda non trova apprezzabile riscontro. È dimostrato in atti che Feltri sia stato sottoposto all'azione disciplinare sia personalmente e dunque come autore degli scritti contestati, sia come direttore responsabile e non certo per omesso controllo, mai invocato dall'Ordine della Lombardia. La delibera di apertura del procedimento disciplinare reca infatti una doppia intestazione: l'una indica il «giornalista professionista Vittorio Feltri, direttore responsabile de "Il Giornale"» ed è indirizzata «in Via Negri, 4» a Milano; l'altra indica soltanto il giornalista Vittorio Feltri e reca l'indirizzo privato. Ma vi è di più. Nel capo d'incolpazione esplicitamente si contesta la «pubblicazione» senza adeguata verifica della vicenda rivelatasi non corrispondente alla verità processuale. E pacifico che solo il direttore responsabile sia titolare di un potere di «pubblicazione» e, non essendo contestato l'omesso controllo, la sua responsabilità — anche disciplinare, oltre che sotto altri profili — è in re ipsa e non può che sussistere come concorso. Nella fattispecie è evidente che si tratta di «concorso morale» poiché gli articoli sono stati materialmente realizzati da altri giornalisti.

Dunque assoluta e logica corrispondenza fra l'incolpazione e il provvedimento finale.

Per quanto poi attiene la presunta sproporzione con la sanzione irrogata al giornalista Gabriele Villa - più volte sottolineata dall'incolpato nel corso dell'audizione davanti ai Consiglio Nazionale - va rilevato che nella sua qualità di direttore, Feltri è responsabile «anche» del contenuto degli scritti di Villa, del rilievo giornalistico attribuito alla "velina" oltre che di quanto affermato negli articoli a sua firma. Ma tra le responsabilità di Feltri vi è anche la condotta tenuta nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione della «notizia» e che, se improntata al rispetto delle norme deontologiche, avrebbe potuto efficacemente rimediare al vulnus arrecato alla dignità della professione, ma soprattutto avrebbe evidenziato quello spirito di lealtà e buona fede richiesto al giornalista, ma del tutto assente dai comportamenti di Feltri, almeno fino all'avvio dell'azione disciplinare da parte dell'Ordine di Milano.

Pubblicazione di notizia non vera

Per quanto attiene il merito della vicenda, il Consiglio regionale -come per altro sottolineato dallo stesso procuratore generale - dimostra con logicità e rigore argomentativo come il Feltri abbia pubblicato una notizia non vera, offrendola al pubblico come una sentenza della magistratura e frutto di un patteggiamento. In realtà Feltri pubblica una notizia vecchia, in quanto il decreto penale di condanna - che non equivale certo a un patteggiamento - risale a ben cinque anni prima (7 settembre 2004, afferma lo stesso «Giornale») e che era stata diffusa, senza destare particolare attenzione, da altri organi di stampa già un anno prima. L'elemento che suscita clamore e che porta alle dimissioni del direttore di «Avvenire» sono proprio i "dettagli" contenuti nella «velina» che giunge al Feltri da una asserita fonte autorevole. Sul contenuto di tale velina Feltri in Consiglio ha riferito di esserne venuto a conoscenza tramite il condirettore Alessandro Sallusti al quale ha poi affidato l'incarico di verificare la notizia e l'attendibilità della fonte. «Ho una redazione di 135 giornalisti, non posso mettermi io a fare le verifiche su ciò che pubblichiamo», ha dichiarato durante l'audizione davanti al Consiglio nazionale. In concreto, né Sallusti né Gabriele Villa - il giornalista incaricato di redigere l'articolo di cronaca giudiziaria - svolgono alcun serio accertamento, come avrebbe invece richiesto un corretto lavoro giornalistico. Tanto più che non c'era fretta di pubblicare la notizia con tutto il suo corredo di dettagli, visto che si trattava di materiali già pubblicati da altri, almeno per quanto riguardava il decreto penale di condanna. Feltri e i suoi giornalisti si limitano a verifiche superficiali, senza alcuna formale richiesta di poter accedere agli atti del procedimento. In tal senso le dichiarazioni spontanee del condirettore del «Giornale», Sallusti, si limitano a confermare la versione fornita da Feltri circa l'acquisizione della «velina» tramite una fonte «autorevole» e che, nel suo svolgimento, non è contestata da alcuno.

Nella situazione determinatasi correttezza professionale avrebbe voluto che si distinguesse fra notizia vera e documentata — cioè la condanna di Boffo - e ipotetiche motivazioni della condanna che venivano sì riferite da fonte ritenuta autorevole, ma che non era stato possibile verificare in maniera certa. Invece negli articoli è dato sempre come assolutamente vero l'intero racconto e come frutto di una sentenza del Tribunale di Terni, senza mai la prospettazione - neppure per un minimo di prudenza - di alcun dubbio e senza l'uso di condizionali o di periodi ipotetici.

L'attribuzione di inclinazioni omosessuali

Per quanto riguarda l'attribuzione a Boffo di inclinazioni omosessuali, Feltri dice nei suoi articoli e nelle dichiarazioni dinanzi al Consiglio di non voler attribuire loro alcun valore discriminatorio, ben sapendo però che la pubblicazione del «Giornale» si differenzia dalle precedenti diffusioni della notizia proprio per quei «dettagli» e per l'evidenza tipografica, scelte che competono esclusivamente al direttore responsabile.

E condivisibile l'orientamento del Consiglio regionale nel non voler ricercare le motivazioni che hanno portato Feltri alla pubblicazione della notizia così impostata e in quel dato momento. Il che fa escludere la fondatezza di un'altra contestazione della difesa e cioè che l'Ordine lombardo abbia agito con un'impostazione propria dell'indagine penale andando alla ricerca di un movente.

A proposito ancora dell'attribuzione a Boffo di inclinazioni omosessuali, ha ragione Feltri quando sostiene che «l'omosessualità non è un reato, non può essere discriminatoria, non può essere usata in nessun altro modo e quindi nel momento in cui però Boffo mi ha chiesto attraverso il suo avvocato di precisare che negli atti non era specificata l'omosessualità io l'ho fatto immediatamente». Appare evidente che il Feltri-incolpato qui contraddice il Feltri-direttore. Se infatti non avesse considerato la presunta omosessualità di Boffo come elemento essenziale alla comprensione della notizia, non l'avrebbe certo pubblicata. Ma poiché l'esercizio del diritto di critica - legittimo e incontestato - si basava proprio sulla carenza di moralità da parte di chi si ergeva a moralista, non vi è dubbio che questo aspetto, sottolineato anche negli altri articoli del «Giornale» - sia in maniera diretta sia attraverso artifizi retorici {«Intendiamoci. La relazione omosessuale era ed è affar suo, ma il reato per il quale ha patteggiato, ossìa le molestie, non è mica tanto privato poiché trattato in un'aula di Giustizia», articolo del 29 agosto 2009) -abbia prodotto non una diffamazione, bensì una profonda lesione di quel diritto all'identità personale che promana direttamente dall'articolo 2 della Costituzione. Da tempo la giurisprudenza, e la deontologia professionale attraverso il limite dell'osservanza delle norme dettate a tutela della «personalità» altrui, hanno accolto il principio che ogni individuo ha il diritto di vedersi descritto esattamente com'è, senza inesattezze che agli occhi del pubblico ne stravolgano l'immagine etica, sociale o politica con l'attribuzione di azioni non compiute dal soggetto o di comportamenti da lui non praticati. Ed è proprio quel che Feltri ha fatto, in piena consapevolezza, quando spiega ai lettori le ragioni necessitanti dei suoi articoli: «Nessuno, tantomeno al Giornale, si sarebbe occupato di una cosa simile se lui, il Prìncipe dei moralisti, non avesse fatto certe prediche dal pulpito del foglio Cei per condannare le presunte dissolutezze del Cavaliere». Solo che per fare questo Feltri ha utilizzato elementi palesemente non veri, andando così a offendere nel profondo la personalità di Boffo e il suo diritto inviolabile ad affermare le sue intrinseche qualità nella vita di relazione.

Diritto di replica e smentita

Anche per quanto riguarda la mancata richiesta di rettifica da parte di Boffo, le scelte di Feltri non appaiono deontologicamente corrette. Di fronte al clamore suscitato dalla «notizia», ci si è limitati a pubblicare l'anticipazione all'Ansa dell'editoriale che sarebbe stato pubblicato da «Avvenire» l'indomani e nel quale è ben chiara la posizione di assoluta contestazione verso gli articoli del «Giornale» («Vittorio Feltri sa anche quello che io non so, e per avallarlo non si fa scrupoli a montare una vicenda inverosimile, capziosa, assurda. Diciamo le cose con il loro nome: è un killeraggio giornalistico allo stato puro... Siamo, pesa dirlo, alla barbarie»). Non si capisce come la difesa di Feltri possa sostenere che una simile posizione rappresenti una «sostanziale acquiescenza» di Boffo verso il contenuto degli articoli.

Né risulta apprezzabile l'osservazione della difesa che sottolinea l'assenza di qualsiasi richiesta di smentita o rettifica. Come opportunamente ricorda l'Ordine lombardo richiamando la «Carta dei doveri», il giornalista «rettìfica quindi con tempestività e appropriato rilievo, anche in assenza di specifica richiesta, le informazioni che dopo la loro diffusione si sono rivelate inesatte o errate, soprattutto quando l'errore possa ledere o danneggiare singole persone, enti, categorie, associazioni o comunità». Certo, la «rettifica» da parte di Feltri c'è stata, ma dopo oltre tre mesi, dopo che era sopravvenuta una transazione con Boffo e anche molto tempo dopo che il ministro Maroni e la procura della Repubblica di Terni avevano precisato che nella condanna per molestie telefoniche non vi era alcun riferimento alle inclinazioni sessuali del direttore di «Avvenire», dichiarazioni riprese da tutta la stampa italiana, ma ignorate dal «Giornale». Non solo, ma questa «rettifica» - oltre che assolutamente tardiva e dunque in aperta violazione dell'obbligo deontologico della tempestività - risulta in contrasto anche con quanto previsto dalla legge sulla stampa che impone le «medesime caratteristiche tipografiche». È evidente infatti che il risalto dato agli articoli del 28 e 29 agosto è assai diverso dal rilievo dato alla cosiddetta rettifica, pubblicata sulla prima pagina del «Giornale» del 4 dicembre con un titoletto su tre colonne in basso e con un testo che prosegue non a pagina 2 o 3, ma a pagina 40.

Nell'audizione in Consiglio Nazionale Feltri ha spiegato che la rettìfica è stata direttamente concordata con la difesa di Boffo e, per evitare il rischio di una riproposizione della vicenda, l'ex direttore di «Avvenire» non solo ha controllato il testo, ma avrebbe anche fatto il titolo e scelto la collocazione in pagina. Disponibilità questa che, per quanto tardiva, testimonia comunque il riconoscimento dell'errore da parte dell'incolpato. Resta pur sempre l'atteggiamento di Feltri che considera la rettifica solo come un obbligo nei confronti di Boffo e non anche e principalmente un dovere nei confronti dei lettori ai quali è stata fornita una notizia non vera.

Anche l'obiezione secondo cui il legale di Boffo si è opposto alla desecretazione del fascicolo processuale impedendo così al «Giornale» di poter consultare gli atti della vicenda è infondata. I giornalisti incaricati da Feltri di compiere le opportune verifiche non hanno mai chiesto formalmente di poter conoscere quegli atti in modo da avviare una procedura che avrebbe potuto avere - così come lo è stato per il Consiglio lombardo - esiti conoscitivi diversi. La richiesta si è limitata a contatti verbali, ai quali è stato opposto un ineccepibile ma non insuperabile diniego. Risolutiva in proposito l'osservazione dell'Ordine lombardo quando precisa che tecnicamente gli atti del fascicolo Boffo non erano secretati, misura prevista dall'art. 391 quìnquìes Cpp. Invece il giudice umbro si era limitato - più di un anno prima - a negare ai giornalisti Mario Adinolfì e Ignazio Ingrao la consultazione degli atti nell'ambito della discrezionalità che gli riconosce l'art. 116 Cpp. Per cui se il legale di Boffo ha pienamente esercitato un diritto del suo assistito, non si può dire altrettanto dei giornalisti cui Feltri aveva delegato questo aspetto della verifica delle notizie.

Il Consiglio ritiene provata la responsabilità di Feltri in quanto autore degli articoli contestati e per il concorso morale nella pubblicazione, in quanto all'epoca dei fatti direttore responsabile del «Giornale».

Per quanto attiene l'entità della sanzione il Consiglio visto il comportamento tenuto dall'incolpato, che si è mostrato comunque rispettoso dell'Ordine, e considerate le osservazioni del Procuratore generale di Milano, ritiene equa la sospensione dalla professione (art. 54 della legge n. 69/1963) per tre mesi.

 

P.Q.M.

Il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti, visto il fascicolo degli atti, udito il consigliere relatore, sentito l'interessato assistito dagli avvocati Angelo Giarda e Gabriele Fava, a scrutinio segreto decide di infliggere al giornalista Vittorio Feltri la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione per la durata di tre mesi.
Così deciso in Roma l'11.11.2010.

Le decisioni del Consiglio Nazionale, pronunziate sui ricorsi in materia di iscrizione nell'albo, negli elenchi o nel registro e di cancellazione, nonché in materia disciplinare ed elettorale "possono essere impugnate, nel termine di 30 giorni dalla notifica, innanzi al tribunale del capoluogo del distretto in cui ha sede il Consiglio regionale o interregionale presso cui il giornalista è iscritto od ove l'elezione contestata sì è svolta" ... "Possono proporre reclamo all'Autorità giudiziaria sia l'interessato sia il procuratore della Repubblica e il procuratore generale competenti per territorio" (art. 63 L. 69/63).

 

CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI

 

Decisione depositata in originale presso  la Segreteria del Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti il 19 NOV. 2010

 

CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI

 

CONSIGLIO NAZIONALE DELL'ORDINE DEI GIORNALISTI

 
 
 
 



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